La pandemia di coronavirus rivela il fallimento della modernità su due versanti: la presunzione di un progresso infinito e l’incapacità di prevedere le conseguenze delle radicali innovazioni tecnologiche. Siamo sempre meno padroni della tecnica, e sempre più suoi strumenti passivi. Scriveva il filosofo Gunther Anders, una trentina di anni fa, che se fino allora la domanda centrale era: che ne facciamo della tecnica, ora è la tecnologia che si chiede: cosa ne facciamo degli uomini?
Come si esce, allora, dalla sfida del coronavirus? Intanto, possiamo preliminarmente osservare che quella della pandemia in corso (dopo tutte le altre degli ultimi 100 anni) come, su un altro piano, quella della gravissima crisi finanziaria globale del 2007, costituisce un’ importante opportunità per una radicale revisione della nostra visione del mondo e del paradigma tecnocratico che ispira l’Ordine economico-sociale-politico che (s)governa la modernità. Ma, come è accaduto per la crisi finanziaria (rimasta senza risposta), così anche per la pandemia di coronavirus, non appronteremo una risposta adeguata a questa e a tante altre possibili pandemie future, se non cambiamo la nostra visione dell’uomo, immaginando un nuovo umanesimo, che sia finalmente integrale e cosmico, oltre ogni antropocentrismo assoluto con il corredo dello spirito di potenza che ha contraddistinto l’era e i guasti globali dell’Antropocene. C’è bisogno di una nuova concezione dell’umano, che ne accolga la “fragilità” come ricchezza e forza costitutive, e come capacità di legare visibile e invisibile. La fragilità non richiama una cultura della morte, come dice Scurati, ma è cultura della vita, di cui la morte è parte.
Ma questo umanesimo deve avere una caratura cosmica, e abbracciare olisticamente e armoniosamente tutte le creature, perché tutto si tocca (lo dice anche la fisica quantistica) e tutto è parte di una unica famiglia universale, che condivide lo stesso destino (come scrive papa Francesco nella sua “Laudato Si'”). Va cambiata radicalmente, in prospettiva, la nostra visione della realtà, che riduce a merce e cosifica l’uomo, la natura e il mondo (e anche Dio). C’è bisogno, insomma, di ripensare radicalmente il rapporto Dio-Uomo-Mondo, e di rifare -come sosteneva Raimon Panikkar- l’esperienza umana sulla terra.