Perché la fiaba è il linguaggio dell’anima?
1- Innanzitutto perché ne abbiamo fatto esperienza nella nostra infanzia, chi più chi meno.
E anche i meno fortunati, i bambini della tratta che muoiono nel Mediterraneo o si suicidano a Lesbo, sentono fortissimo il richiamo di questa parola -la fiaba- che racconta e mette in scena come in una piece teatrale il cammino dell’uomo e della donna nella vita, nel suo mistero, nel suo incanto, nella sua ferocia.
In senso molto più che psicopedagogico, la fiaba orienta il fanciullo nella foresta “impenetrabile” dell’esistenza, foresta sconosciuta, piena di pericoli, dove incontra orchi, principi, eroi, streghe, cavalieri, fate, animali e piante parlanti, e anche le cose che esprimono la loro “personalità” e pronunciano addirittura profezie. E dominante, in questo universo vivo in cui tutto si tocca, è il trionfo della giustizia sull’ingiustizia, del bene sul male, della luce sulle tenebre; l’affermazione della tenerezza, dell’amicizia e dell’amore sulla crudeltà, sull’odio e sulla ferocia.
Troviamo nelle fiabe i bisogni, le sofferenze, le paure, i sogni che caratterizzano l’umano, rappresentati in un linguaggio “popolare”, semplice, caldo, e a volte di brutale schiettezza; un linuaggio dal timbro poetico, leggero e antichissimo allo stesso tempo. Ma attenzione alla semplicità della fiaba! Non è affatto facile la fiaba. Se la pensassimo così la banalizzeremmo. La sua semplicità -frutto di una lenta sedimentazione di millenni- non è facilità.
Occorre uno scavo profondo per attingerne le ricchezze di senso.
Come per quell’incantevole ouverture: “C’era una volta”. Un imperfetto:”c’era”, che è un tempo del passato continuo, un non ancora compiuto, che dura, che non finisce, che non è morto, e giunge fino a noi, qui ed ora. Quell’imperfetto che è un tempo misterioso, come di un tempo storico che preme per farsi presente. Un passato profondo, rafforzato e dilatato dall’indeterminatezza del riferimento temporale di “una volta”, che può essere dovunque e ancora. Insomma, la formula di un rito di iniziazione del fanciullo a tutta la realtà, nel suo intreccio di visibile e di invisibile.
Per i Fratelli Grimm, le fiabe erano, infatti, risonanze di antichi miti, sopravvissuti, eleborati, sedimentati nella memoria popolare e tramandati dalla tradizione orale.
Le fiabe sono, dunque, narrazioni di popolo, racconti corali, in cui si fondono e si armonizzano tutte le facoltà umane: il realismo, la ragione, la fantasia, la magia, il sogno, le emozioni, e dove la separazione fra i tre vecchi regni, quello animale, il minerale e il vegetale (cari a Darwin) viene di colpo annientata.
2- Ma le Fiabe sono linguaggio dell’anima anche perchè custodiscono un legame profondo, costitutivo, con il Mito, originandosi dallo stesso alveo primigenio. E anche se, a differenza della
fiaba, il mito è una visione caratterizzata da una forte corrente filosofico-poietica, come il mito la fiaba – direbbe Kazantzakis- stende sull’abisso misterioso e crudele della vita un tappeto policromo di fiori. La parentela tra questi due “generi” si fa del tutto evidente se pensiamo al significato delle due espressioni. Mito è la parola potente che crea la realtà. Fiaba, dal latino fabula, deriva dalla radice “fa”, che significa il “dire divino” che fa essere le cose, a cui si aggiunge “bul”, che è il luogo dove l’azione espressa dal verbo ha luogo.
La favola è, dunque, lo spazio dove si incontra il proprio destino, dove l’uomo e la donna vivono il rischio dell’avventura della vita. Quel rischio, del resto, che è la trama invisibile che attraversa ogni fiaba, e che ne rappresenta il respiro segreto. Rischio, appunto, che viene da resecare, tagliare … il cordone ombelicale per iniziare il viaggio della vita in mare aperto.
3- Ed infine, le fiabe sono il linguaggio dell’anima perché rappresentano l’espressione più genuina e pura dei processi della psiche, dell’inconscio sia collettivo che individuale. Come ha genialmente capito Jung, che era fortemente affascinato ed attratto dal mondo della fiaba. E nel vivacissimo simbolismo delle fiabe, il grande psicoanalista ha saputo individuare e quasi cogliere in azione quelle configurazioni, dotate di struttura universale e di forte valenza affettiva, che ha chiamato archetipi: le tracce, le forme, le voci e le passioni primigenie della psiche. La fiaba – diceva Jung – rappresenta un prodotto dell’anima universale comune a tutti i popoli. Non a caso, di Cappuccetto Rosso esistono 40 versioni nel mondo e di Cenerentola ben 345 versioni in tutti i continenti.
Nel pensiero simbolico delle fiabe operano – sosteneva lo psicoanalista – le rappresentazioni delle quattro funzioni fondamentali della psiche: Pensiero, Sentimento, Sensazione e Intuizione.
E’ molto interessante scorrere l’elenco di queste Rappresentazioni, che per il “maschile” sono: il Padre/ che nella versione oppositiva è l’ Orco, il Giovane/ che nella versione opposta è anche il Vagabondo o il Cacciatore, l’Eroe/il Cattivo, l’Imbroglione o Mago Bianco/ e il Mago Nero. Per il “femminile” incontriamo altri archetipi: la Madre/ che può anche essere al suo opposto la Madre terrificante o la Matrigna, e così la Principessa/Seduttrice, l’Amazzone/ Cacciatrice, la Sacerdotessa/ Strega. E a questi 16 tipi ne aggiungeva due Sintetici: il Vecchio Sapiente e la Grande Madre o Madre Terra.
Ma non sono questi gli archetipi che ritroviamo in tutte le fiabe? Archetipi che declinano appunto il linguaggio dell’anima.
4- Ma perché oggi è urgente riattingere l’acqua alla “fonte delle fate”?
Perché in un tempo in cui la donna e l’uomo rischiano di perderla l’anima, si rende necessario tornare a tessere e a riattualizzare nel linguaggio dell’oggi il linguaggio (eterno) delle fiabe. Nel mondo assurdo che ci hanno consegnato la filosofia e la scienza moderne, in cui tutto è cosificato come in un immenso magazzino senz’anima, sconvolto da una crisi ecologica e climatica e da una disumana diseguaglianza globale, in questo mondo devastato dell’Antropocene, è necessario riattingere al profondo giacimento di senso e di creatività racchiuso nel mondo delle fiabe. Dove i protagonisti sono – nelle continue metamorfosi della vita- non solo i bambini e gli adulti, ma le cose, gli animali, le piante, le creature cosmiche come l’acqua, il cielo, la terra, e le creature magiche come gli elfi, le fate, i maghi, le streghe, abitanti di quel “mondo di mezzo” sospeso tra visibile e invisibile.
Al tempo del covid – che ci ha fatto perdere il mondo e che ha ferito irreversibilmente la comunità umana, rivelando quanto pericolosa sia la devastazione ambientale e creaturale da cui scaturisce la Pandemia – siamo sfidati a riscoprire il prezioso “messaggio” che la fiaba tramanda, che ci dice che tutto è vivo, si tocca e convive in quella che papa Francesco ha definito come l’unica Famiglia universale. Che tradotto significa che il mondo e la vita vanno accolti e vissuti, non dominati e sfregiati, come continuiamo a fare danzando sull’orlo dell’abisso.
Quello che oggi ci occorre è una nuova visione che ci permetta di compiere un balzo in avanti costruendo una civiltà radicalmente nuova. Un balzo in avanti che per poter avvenire esige, però, il recupero delle dimensioni dell’invisibile e dell’armonia – questi grandi assenti della civiltà occidentale – che la fiaba come linguaggio dell’anima promette di disvelarci.
5- Per questa ragione l’esigenza di tornare a scrivere fiabe, che sembra germogliare con vigore qua e là nelle diverse culture, (e di cui sono, tra gli altri, testimonianza l'”Assemblea degli animali” di Filelfo, e “Tornare bambini” di Raffaele Federici, edito da Intermedia Edizioni) rappresenta un segno dei tempi importante che riapre cammini di speranza, capaci di costruire una nuova trama di relazioni, più umane e attente, con il mondo, con gli uomini e con Dio.
6- Più che per tornare bambini, per riscoprire e tenere vivo dentro di noi quel “bambino” che è in qualche modo il nostro Io interiore più profondo e dal quale scaturisce quell’apertura stupita alla realtà, da cui sono nate l’arte, la filosofia e la scienza. Quello stupore che si è originato con noi e che ci accompagna anche nel momento della fine quando, a qualsiasi età, il nostro bambino interiore si chiederà stupito: “perché così presto?”.