Un Diario d’acqua, di terra e di cielo.

Perché proprio ora, e tanto più nel tempo del Covid – che rende tutto immensamente più difficile- un viaggio in Amazzonia? Sostanzialmente per due motivi, inestricabilmente intrecciati. Primo, perché questo è un “viaggio necessario”, viaggio libero aperto e rischioso, che ti porta dov’é la tua anima. E mai come in questo periodo ho sentito il bisogno di ritrovare la mia anima. Come la caravella del racconto di Saramago, che va alla ricerca dell’Isola Sconosciuta, scoprendo infine che prende il mare alla ricerca di se stessa.

L’altro motivo è più pressante -anzi drammatico- e ha un respiro planetario e cosmico, nel suo perimetro esterno, e un immenso valore spirituale, in quello interno: la gravissima crisi dell’Umanità e della Terra, che nell’Amazzonia degli ultimi popoli originari e della vita più traboccante che ci sia, trova la sua metafora paradigmatica e concreta. Visto dall’alto, avvicinandomi in aereo a Belem, il Rio delle Amazzoni, questo “padre Patriarca di tutte le sillabe d’acqua” (come lo canta Neruda), semplicemente emoziona e stordisce, come un’immensa spola che ordisce la trama di una foresta che sembra non aver confini, e che nutre popoli di una sapienza ancestrale e animali i più variegati e straordinari della terra. Per non dire dei fiumi che scorrono in cielo, tra rive strabilianti -sempre cangianti- di nuvole monumentali.

E’ proprio ora, infatti, che questa crisi, che dura almeno da vent’anni, ha raggiunto il suo livello di non ritorno, ora che la foresta (che copre ben 9 Stati sudamericani) è stata distrutta per un quinto dagli incendi innescati dai fazendeiros, dai cercatori d’oro, e da un’attività estrattiva e di disboscamento selvaggio che sventra senza pietà la foresta, e spopola, fino al pericolo dell’estinzione, il poco più di due milioni di indios (suddivisi in circa 130 popoli). Costretti ad inoltrarsi nei luoghi sempre più impervi all’interno della regione panamazzonica, o a sradicarsi nelle sempre più vaste e anonime periferie di Manaus e di Belem e nei villaggi che si sono moltiplicati lungo le rive dei fiumi. Gli incendi, che ogni anno superano quelli degli anni precedenti, sono già ripresi in questi ultimi mesi, e cingono d’assedio tutto l’arco sud, da oriente a occidente, della foresta pluviale. Che rischia di mutarsi in una immensa e triste savana, e che già adesso -secondo gli studi più recenti- si sta trasformando da “polmone verde” che, catturando l’anidride carbonica dall’atmosfera, permette ai pianeta di respirare, a generatrice di biossido di carbonio, che va inesorabilmente ad aggravare la già gravissima crisi climatica, avvicinandola pericolosamente ad un punto di non ritorno.

Ho così deciso di venire qui in Amazzonia, per ascoltare di persona questo doppio grido intrecciato dell’Uomo e della Terra, e per vederne coi miei occhi lo strazio. Ma soprattutto per cercare di dargli un “volto”, un’anima. E per cantarne il dolore. E la speranza, che è tutta raccolta attorno a quella “ecologia integrale” che papa Francesco ha indicato, nella “Laudato si'” e nella “Querida Amazonia”, come sfida centrale e cruciale del nostro tempo. Un viaggio-pellegrinaggio, di due mesi, sulle orme di un papa riconosciuto profeta anche da intellettuali non credenti come Edgar Morin e Zygmunt Bauman. Per conferire sangue e carne a qualcosa che è ben più di un concetto, e aiutare a farne la “rotta” che inverta il rischio dell’universale naufragio, e ricostruisca la nostra Dimora.

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